Oggi vi proponiamo un capitolo del libro "Tradizioni nel borgo di S. Agostino", che racconta una delle celebrazioni più sentite della nostra terra: la processione alla Nosetta.
Nel 1836, durante l’epidemia di colera, gli abitanti di S. Agostino fecero un voto alla Madonna della Nosetta (o del Rosario), dando vita a una processione annuale che da quasi due secoli unisce la comunità in un momento di preghiera e solidarietà.
Abbiamo deciso di raccontarla perché rappresenta non solo un rito religioso, ma anche un legame profondo tra passato e presente, simbolo di identità e memoria del nostro territorio, da tramandare alle generazioni future.
« Exsurge Christe adiuva nos »Sorgi, o Signore, e aiutaci; e liberaci per la potenza del tuo nome.O Signore, l'abbiamo udito con le nostre orecchie, i nostri padri l'hanno tramandato a noi.Al tempo del colera la gente moriva e la moria non voleva cessare; i nostri vecchi hanno fatto un voto e finalmente è tornata la sanità.Gloria al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, noi adempiamo il voto dei nostri maggiori.Com'era nel principio e ora e sempre: nei secoli dei secoli. Amen.Ma tu Signore, pure noi aiuta!Kyrie eleisonCristo pietà Kyrie eleison!E quando si levava il Sancta Maria e la gente cantava: ora pro nobis, la piccola processione usciva di chiesa.L'Arciprete faceva la riverenza all'altare della Vergine, e forzando la voce perché udissero anche quei ch'eran già in cammino, proclamava:Sancte Micael,Sancte Raphael,Omnes sancti Angeli et Arcangeli,E la gente rispondeva: ora, ora, orate pro nobis.Si era ormai imboccata la strada che mena al Vô, e dalle case uscivan le donne col velo nero e le ragazze col velo bianco, ché avevan udito il richiamo del canto, ed entravano alla rinfusa allungando la fila ora da un lato, ora dall'altro, mentre continuava l'invocazione di tutti i Santi Apostoli ed Evangelisti, Martiri e Confessori, Monaci ed Anacoreti, Vergini e Vedove, tutti in ordine di precedenza, ché nessuno doveva mancare alla conta, perché si andava a sciogliere un voto.Alle finestre erano ancora gli addobbi e sui muri le ghirlande di fiori di carta; i palloni spenti la sera precedente sembravano attendere il nascere del nuovo sole per rianimarsi. Ai piedi della salita (1), presso la stazione della funicolare, si interrompevano le litanie dei santi per cominciare le laure-tane, e si cantavano tre a tre, alternandone i cori per riprender fiato, perché la salita tirava un po' (2).Quando si giungeva al piazzaletto davanti alla cappella, tutta addobbata, dove la Madonna sfoggiava i suoi ori (ripresi in segno di festa), si pregava pei malati e per intenzioni di cir-costanza, prima di cantare un oremus e benedire la gente con la reliquia della Beata Vergine.Si ricomponeva la fila, con davanti la croce e i due cilostri, e dietro tutti (che nessuno rimaneva lassù, ma ognuno scendeva per la messa). E l'arciprete riprendeva il canto e la gente rispondeva. Adesso la processione si snodava per via Torno (3) in tutta la sua lunghezza: sotto, la città si svegliava dal sonno mentre il lago si ammantava di tinte morbide, scotendosi la nebbiolina della notte. Si respirava l'aria pura del mattino, al primo sole, ringraziando per la salute che sembrava entrar nei polmoni e trasformarsi in preghiera.
Viale Geno nel 1930
(1)L’attuale via Madonnetta, che un tempo dicevasi "via Coloniola", e prima ancora "Strada Comunale per Blevio”.(2)Sono le litanie della Madonna, dette "Lauretane" per l'importanza che ebbero nel Santuario di Loreto, com'è ricordato già in un documento del 1531.(3)La via Torno è abbastanza recente. Un tempo esisteva una mulattiera che da Piazza Coloniola saliva a imboccare la strada al Crescione e proseguiva fino a Torno. Si chiamò "la strada vègia" in contrapposizione alla "strada növa" che aveva un percorso più basso e proseguiva fino a Pognana. Una sessantina danni fa intervenne l'Amministrazione Provinciale a definire l'attuale tracciato sino a Bellagio. Non era questo, dunque, il percorso dell'antica processione.Ab omni malo,libera nos Domine!Ad omni peccato, a spiritu fornicationislibera nos Domine!L'inquinamento del peccato sembrava impossibile davanti al-l'incanto della natura che si apriva sotto di noi. Ma anche solo il ricordo dei mali passati pareva insidiare tanta riposata le-tizia. A fulgure et tempestatelibera nos Domine,A flagello terremotuslibera nos Domine,A peste, fame et bello... i tre mali che più che ogni altro affliggono l'umanità, come negli anni lontani del voto: scampacene o Signore!E la preghiera diventava deprecatoria:Te ne preghiamo per il mistero della tua incarnazione, della tua venuta, della tua nascita, per la croce e la passione, la morte e la sepoltura, la tua santa resurrezione, e la tua ammirabile ascensione. Libera nos Domine!Le campane suonavano festose la prima messa; già si vedeva il tetto della chiesa e, dietro la curva, terminava il pellegrinare.Ut ad veram penitentiam nos perducere digneris,Ut animas nostras, fratrum, propinquorum et benefactorum nostrorum ab aeterna damnationeeripias,Te rogamus, audi nos!Cominciava la messa, all'altar della Vergine: sempre in color verde i paramenti per le rigorose leggi dell'antica liturgia. Ma qual che fosse il Vangelo di quella domenica « post Penthecosten” l'omelia doveva immancabilmente vertere sul colera, il voto dei nostri avi, la protezione della Madonna.Durante tutta la domenica era un andirivieni di gente, con la corona in mano, dal borgo alla Cappellina.Come ogni festa solenne anche questa aveva la sua vigilia.Quando suonava, come nelle feste grandi, l'Ave Maria della sera, percorrendo la « Coloniola» mi recavo alla Nosetta, per la recita del Rosario. Per via ci si fermava alla Cà rotta dove ab immemorabili era preparato un altarino, tra festoni di fiori cartacei e palloncini alla veneziana: la gente era raccolta per la recita dell'Angelus e poi si accompagnava, per salire alla Madonnina.Per via, addobbi alle finestre, festoni verdi, qualche sandalina e palloncini accesi: un luminéri per tutt el burg! Un tempo, mi dicono, tutto il quartiere, dalla chiesa alla Nosetta, era in gran trambusto e frequenti i piccoli altari nei vani delle porte.Un tappetino consunto e un minuscolo cuscino attendevano che l'Arciprete si inginocchiasse per cominciare il rosario. Intorno gente e luminarie per ogni dove.Poi, dopo le litanie e il commiato si tornava in canonica: era il sabato che precedeva la seconda di luglio.Quell'anno anche alcuni fuochi d'artificio si levarono ad avvertire la città di quel che accadeva lassù.Poi si allargò la via Torno, il piazzaletto fu eliminato e il rumore delle macchine soverchiava la voce di chi pregava.Un'altra tradizione stava per spegnersi.Nel 1831 una lettera a stampa del Vescovo di Como mons. Giambattista Castelnuovo indiceva preghiere e funzioni di propiziazione perchè il Signore «non permetta che vengan funestate queste nostre contrade dal fiero morbo» che già s'era manifestato in molte parti d'Europa.L’I. R. Delegazione Provinciale e la Commissione Delegata appositamente nominata dal Podestà, diffondevano un opuscolo atto a prevenire, riconoscere e combattere il Cholera morbus. Il Vescovo stesso esortava i parroci a diffonderlo tra il popolo.Si raccolsero «offerte per prevenire il male e soccorrerne gli infettati nel deprecabile caso che si fosse manifestato», anzi per maggior precauzione si invitavano volontari all’ospedale S. Anna, per essere istruiti come infermieri, sempre nel deprecabile caso che si manifestasse l’epidemia.Il fatto è che «quel flagello che abbiamo provocato coi nostri peccati e del quale ora volge il terzo anno fummo misericordiosamente preservati, il Cholera, invase ora i vicini nostri paesi», così il nuovo Vescovo di Como mons. Carlo Romanò, nel 1833.E si diffuse un nuovo opuscolo: Istruzioni sul modo di prevenire e curare il Cholera Morbo prima dell’arrivo del medico.Un Regolamento sanitario e di beneficenza per il caso che scoppiassero in Como il Cholera morbus fu stampato e diffuso dal Podestà Primo Tatti.I sobborghi di Como contavano complessivamente 8189 abitanti e furono distinti in quattro sezioni: quella di S. Agostino (1642 abitanti), si sarebbe servita dell’ospedale di S. Giuliano; le altre quelli di S. Anna e della Gibellina.
La chiesa di S.Agostino a Como
Si era nel 1836 e proprio in S. Agostino si manifestò il tanto temuto morbo asiatico (4).Nel registro “mortuorum” addì 21 aprile, si legge il decesso di S. Ecc. il Principe di Carini, don Vincenzo La Grua, di anni 80, nato a Palermo. L’illustre personaggio morì nell’albergo Garganigo, al civico n. 542. Causa della morte: “diarrea accompagnata da vomito”.Una nota, a margine, commenta: «in sulle prime si aveva paura a proferire il nome di Cholera orientale. E però vedi nel La Grua in qual modo si segni la causa della morte».(4) S. Agostino era il borgo dei lavandai, dove più facilmente poteva manifestarsi ogni epidemia, per via dei “panni sporchi” che affluivano da tutta la cittàNel borgo di Coloniola dal 16 aprile al 7 settembre morirono: 74 persone, 44 maschi e 30 femmine (5).Era in quei tempi parroco in Coloniola don Domenico Ceresola e reggeva insieme la parrocchia e il piccolo seminario diocesano che vi aveva ospitato per volontà del Vescovo Mons. Giambattista Castelnuovo.Così parla di lui il successore don Maurizio Monti:«Il 17 aprile 1836 cominciato per la prima volta il colera orientale, e precisamente qui nel sobborgo di S. Agostino, il Ceresola stette con cristiana costanza vicino al suo gregge, pronto a ministrare soccorsi spirituali.In questo egli era pure meravigliosamente coadiuvato dal bravo e santo suo vicario sac. Filippo Favoni, che solo di un mese lo precedette nella tomba. Quelli furono tempi di prova e il Ceresola sostenne la prova e fece brutta accoglienza a chi lo consigliava a rinunciare alla parrocchia e ritirarsi in luoghi sani e conservare la vita. Come valoroso soldato morì sul campo di battaglia.E questo morire pieno di gloria in faccia agli uomini e pieno di merito presso a Dio lo percosse col morbo asiatico nel 29 luglio del predetto 1836. Il giorno di S. Anna (25 luglio) celebrò messa per l’ultima volta e benedisse piangendo il suo popolo.Il giorno 5 dello stesso luglio avendo per espresso comando del Vescovo Romanò portato via dalla chiesa di S. Giuliano la SS. Eucaristia, poiché vi si voleva piantare in chiesa uno spedale di colerosi, si ammutinò quel popolo e un nembo di donne pose assedio alla casa parrocchiale e sforzollo a riportare il SS. Sacramento in S. Giuliano.Egli non ne aveva colpa e ciò nullostante non gli si risparmiarono dalla matta plebe le contumelie.Con tali disgusti il Ceresola si approssimava alla morte, ma è appunto per questa via che si giunge al paradiso. Pedes mei ambulaverunt vias asperas.»(5) Il 16 aprile si ammalò la prima persona, il 21: primo caso letale, come s’è detto.A.P. VIII pr. 9: si annotano «in aprile defunti di morbo 10; maggio 7; giugno 3; luglio 34; agosto 16; settembre 3; fino a 7 anni n. 3; 20 n. 7; 40 n. 22; 80 n. 16».L’epidemia si manifestò in modo violentissimo. In città furon colpite 864 persone di cui 602 lasciarono la vita (6).Il 24 aprile il Vescovo dispensa la popolazione dall’astinenza e dal digiuno (7). Si sospende la processione dalla parrocchiale alla S. Annunziata e a S. Agata, solita a tenersi il lunedì di Pentecoste. Il 25 giugno il Vescovo proibisce il suono dell’agonia per non ingenerare angoscia nella popolazione e il 5 luglio, d’accordo con l’autorità civile, ordina di levare il SS. Sacramento dalla chiesa di S. Giuliano onde adibirla a ricovero per i colerosi: con quel che ne seguì e che è già stato riferito. Penso superfluo cercar di descrivere il lutto, l’angoscia, la desolazione in città e nel borgo.«Le lavandaie, massime quelle del Vò e della Nosetta fecero… il voto di recarsi ogni anno processionalmente, per la seconda domenica di luglio, a visitare la cappella della B. Vergine del Rosario alla Nosetta» (8).Di questa cappella, che sorgeva in origine sul suolo del Conte Caresana, si scrive testualmente un luogo parrocchiale: «presso le rive del Vò» (9).In data 6 ottobre 1836 il Vescovo mons. Carlo Romanò, spedì una «Circolare alli MM.RR. signori Parrochi della Città e Diocesi posta negli stati di S.M.I.R.A.».Dopo aver ricordato che «la Divina Giustizia non può disgiungersi dalla Divina Misericordia» richiamò l’attenzione sopra importantissimi oggetti del ministero invitando all’assistenza dei bambini rimasti orfani a causa del morbo asiatico mediante opera di cristiana carità.Intimò inoltre un solenne “Te Deum” in ogni parrocchia per la cessazione del flagello.(6) Cfr. Manuale, 1846, ed. Lanzani.(7) Cfr. A.P. VIII, beta, pr. 2.(8) Cfr. A.P. Nota delle spese e introiti per mantenere la cappella della B. Vergine alla Nosetta (1837).(9) Cfr. «presso le rive del vò» 15 maggio 1962.La giurisdizione del parroco di St’Antonino toccava la frazione di tre comuni: Sobborghi di Como, Camerlata e Corpi Santi e Brunate. All’estremo lembo dei Corpi Santi già dai tempi antichi era «la Nosetta villa adorata di vigne e posta alto (come si può credere) per ricreazione e per sollazzo dei mortali: qui sono all’intorno horti pieni di tutte le sorti hortaggi e frutti per beneficio della soggetta città di Como: dove immediatamente s’arriva: il mandarino che da tutte queste terre (per non dir delle molte ville che sono d’altrui parti) e là cava abondante copia di tutti quei beni, che produce l’aria e la terra, come a bastanza parmi d’haver provato».Col mutar dei tempi vi troviamo un piccolo nucleo di case coloniche, e quasi di sentinella, una piccola cappella che s’apriva verso il monte, in cui l’Annunciazione era dipinta a fresco nell’interno, e sulla facciata esterna verso il lago.
Qui era ancora nel 1778 due case lasciate in dotazione all’arc. Giacomo Benzi al seminario che portò il suo nome e che suggeriscono come probabile che lo stesso Benzi fosse nativo della Nosetta.Quando fu costruita questa cappella? Non penso possa darsi una risposta. Quando Genio e il borgo furono premiati dal colera divenì oggetto del voto d’un’annuale processione di ringraziamento che si cominciò il 9 luglio 1837.Non è azzardato pensare che il nuovo arciprete, succeduto a Don Pasquale Ceresa alla soglia del nuovo secolo e amato dal borgo questa promessa: il 9 aveva veduto morire tanta gente e oltre al credito della processione al seminario in cui risiedeva era in carico al suo collega, Don Filippo Favoni. L’orrore del morbo e la vacanza della parrocchia, la processione chiusa fuori seminario, costrinsero il borgo ad assegnare a lui, Don Maurizio Monti (il sacerdote denunciato al santo Ufficio), la promessa di una Nosetta e di quelle cappelle, non solo fuori ma in ogni doppiamente tristiti.La cappella alla Nosetta, nel margine del torrente, era fatiscente.In quello stesso anno 1836, al 10 di settembre, i fabbriceri della chiesa di Sant’Antonio Clerici e Braghenti, scrissero a un non identificato «Illustrissimo Signor Conte» chiedendo di «cedere un pezzo di terreno della superficie di sei a tre pertiche, a quel modico prezzo che credeva di domandare» per poter ricostruire la cappellina, su pianta ottagonale, un po’ discosta da quel torrente che la minacciava con le sue piene.Si aprì un libro che è insieme di contabilità e di cronaca: 1837:Nota delle spese e introiti per mantenere la Cappella della B. Vergine alla NosettaLa stradetta che dal Vò portava alla Cappellina, era un viottolo mal selciato e l’arciprete si fece premura acciò che l’Amministrazione Comunale provvedesse a renderla almeno praticabile: e del 1839 una significativa risposta del Podestà di Como (confermata dal marchese Cornaggia, che forse doveva contribuire alle spese) in cui si scusa il ritardo dei lavori con l’improvviso ammalarsi del progettista.Nel 1855 mancò ai vivi tal Antonio Carcano che «ammalato gravemente ma di mente sanissima e libero da qualsiasi influenza» sottoscrive di suo pugno alla presenza di due testimoni, un legato di L. mille milanesi «per la Madonna di S.‘Agostino alla Nosetta».Anno per anno vollero conservare e debitamente registrare le offerte che si concepivano alla Nosetta, così come restaurare l’antico progetto della nuova cappellina, si ripresero le trattative col Signor Conte, e senza che una promessa fosse mai mancata.“Dato nel giorno 24 luglio 1856 lo spazio di otto braccia in quadro che si facciano stimare attorno alla cappella della Nosetta, per riedificarvi un’altra cappella in forma ottagonale.Al capomastro Bonegana commesso subito di occupare il terreno coll’incominciarvi i fondamenti.Nel venerdì 25 detto luglio, non poté, per cattivo tempo, darvi principio.Nel sabato 26 detto luglio, ritirai il permesso delle otto braccia per la fabbrica e sospeso ogni lavoro.firmato: M. Monti — Parroco.Il tredici s'era fatta la consueta processione ed eran nate tante speranze: tredici giorni dopo tutto era finito, e per sempre.Nel 1858, il vecchio arciprete che tanto impulso aveva dato alla devozione nell'antica Cappellina lasciò scritto:«La cappella della Nosetta “ab immemorabili” si mantiene con le limosine dei Borghigiani di St’Agostino. E se si guastano i muri, o i tetti fanno acqua, è sempre colle limosine sopradette che si pagano le spese e così del resto. Quindi la cappella è di diritto pubblico e proprietà del Borgo di St’Agostino».
Anche nel 1909 si fecero importanti lavori di restauro. Vacante la parrocchia per la morte dell’arc. Carlo Introzzi, l’Economo Spirituale e Vicario Don Giovanni Giovannini, che aveva fatti eseguire i necessari lavori nonché un duplicato delle chiavi della cappella e bussola, lasciò memoria di sé nel famoso zibaldone con una nota importantissima datata al 30 dicembre di quell’anno.Tra l'altro si legge: «Il miserevole stato in cui era ridotta la cappella della Nosetta per la deficiente manutenzione, mosse la pietà della famiglia Ritter che si offerse per ripararla».La spesa fu ingente e la generosa famiglia contribuì per oltre la metà dell’occorrente.«Merita anche di esser qui osservato che i Borghigiani usarono sempre, nella loro devozione, la Cappella senza dipendere ora chichessia.Quindi esser la chiave presso il Fattore dei Carena si deve considerare per semplice comodità dei devoti».Morì il Conte e morì il Fattore; è noto che la mappa catastale è solo indicativa e non fa testo. Quando però la proprietà Carena fu alienata e i custodi delle chiavi si rifiutarono di riconsegnarle all’arciprete dicendo che la "Cappella era proprietà loro", si è davvero dovuto rivendicare la proprietà della cappella forse con atti legali e sanzioni canoniche. Ma “a chi ti leva il mantello, non rifiutare la tunica”: la cappella diventò di fatto di patrocinio privato ma la tradizione si spense.
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